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L’archivio di Armin Linke, fotografie interpretate per conversare sulla realtà, al Pac di Milano

Milano 17 ottobre 2016 – La fotografia come punto di partenza per delle conversazioni che ci consentano di ampliare il discorso sull’idea di realtà, o quantomeno su quelle sparse tracce che questa vera chimera lascia alle proprie spalle. Il lavoro di Armin Linke, fotografo e film maker 50enne, potrebbe anche essere descritto come l’operazione di raccogliere queste tracce attraverso le immagini, per poi offrirle, sotto forma di un vastissimo archivio, a chi dispone degli strumenti per interpretarle. In questo senso si sviluppa anche la mostra “L’apparenza di ciò che non si vede”, ospitata presso il Padiglione di arte contemporanea di Milano e curata, insieme a Philipp Ziegler, da Ilaria Bonacossa.

“Credo che Armin Linke – ci ha detto la curatrice – in qualche modo metta in discussione lo status della fotografia che, nel momento in cui tutte le immagini e tutta la nostra memoria passa attraverso la fotografia, si pone un grande problema su cosa rimarrà di questi archivi e quindi l’idea di chiamare degli esperti a scegliere nel suo archivio è un po’ l’idea che delle persone diverse vedano un sapere diverso nelle stesse foto, quindi l’idea che il sapere e la società siano così complessi da richiedere una visione condivisa per poterla raccontare”. Così negli spazi del Pac le immagini di Linke appaiono selezionate e accorpate in vari percorsi, scelti da diversi studiosi, tra i quali Bruno Latour, che sottolinea il tema del confine tra il dentro e il fuori e identifica il lavoro del fotografo come un’occasione per “situare l’estetica della macchina fotografica al confine tra l’interno e l’esterno”.

Un confine sul quale si muove anche la stessa dinamica narrativa della mostra del Pac. “La mostra – ha aggiunto Ilaria Bonacossa – è articolata come un ipertesto, è come se uno entrasse fisicamente nel sito dell’archivio di Armin Linke e potesse navigare il suo archivio, in cui ha le immagini, il numero di riferimento e la didascalia che l’artista scrive quando fa la foto, e poi la voce di questi esperti che dicono cosa vedono loro nella mostra”. E dunque, grazie pure a un allestimento che dialoga con l’architettura dell’edificio dei Gardella e che è reticente al punto giusto, la mostra diventa anche un labirinto di possibili percorsi, all’interno dei quali ciò che si vede – nonostante il bellissimo titolo dell’esposizione dica il contrario – è il nostro mondo, per come (non) lo possiamo conoscere. ( Fonte Askanews)